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Quanto ci costa non fare l'Europa? Intervista a Lauro Panella, Servizio Ricerca del Parlamento europeo (EPRS)

Gli Europei di fronte alle sfide globali: il valore di una risposta comune

Lauro Panella, Servizio Ricerca del Parlamento europeo (EPRS)
Lauro Panella, Servizio Ricerca del Parlamento europeo (EPRS)

Per rispondere alle sfide globali, è davvero necessaria una risposta comune a livello europeo?

Oppure un approccio nazionale ai problemi, scevro da strategie sovranazionali e da vincoli comunitari, risulterebbe maggiormente efficiente?

Questa è una delle domande, certamente cruciale, alla base del nuovo studio del Parlamento europeo dal titolo “Accrescere il valore aggiunto europeo in un'epoca di sfide globali - Mappatura del costo della non Europa (2022-2032)”.

Il dibattito sull’attribuzione di competenze è un tema spinoso sia a livello italiano – intendendovi anche i sottolivelli regionale e locale – sia europeo. Esiste quindi la necessità di comprendere se, e in quale misura, l’assegnazione di nuove competenze e il coordinamento dei bilanci a livello UE possano effettivamente generare maggiori benefici e un valore aggiunto per i cittadini europei, rispetto allo scenario in cui le stesse azioni fossero intraprese dai singoli Stati membri.

Ne parliamo oggi con Lauro Panella, economista: funzionario presso la Commissione europea dal 2005, ha lavorato in varie Direzioni Generali (DG SANCO, DG INDUSTRIA, DG GROW); consigliere economico del Commissario Vice Presidente europeo per l'Industria e l'Imprenditoria dal 2012 al 2014, nel 2007 è stato distaccato presso il gabinetto del Presidente del Parlamento europeo, dove ha ricoperto l'incarico di Consigliere economico del Presidente fino al 2019. Oggi è Capo dell’Unità di Analisi Economica sul Valore Aggiunto Europeo del Servizio di Ricerca del Parlamento Europeo (EPRS), Unità competente per la realizzazione dello studio sopra citato.

 

Buongiorno dott. Panella. In che modo il lavoro della sua Unità contribuisce alla discussione in atto sulle priorità strategiche dell'Unione europea?

Il dibattito sull’attribuzione di competenze è certamente ambizioso, motivo per cui il Parlamento europeo si è dotato di un team di economisti in grado di individuare le possibili aree di intervento e quantificare i vantaggi di un approccio integrato e strategico. L’Unità Valore Aggiunto Europeo del Servizio di Ricerca del Parlamento europeo (EPRS), che dirigo, ha l’obiettivo di supportare l’iniziativa legislativa e analizzare il potenziale beneficio derivante da un’azione comune a livello europeo, in aree che spaziano dall’energia alla giustizia, dalla transizione ambientale alla salute pubblica.

Di cosa tratta il nuovo studio che avete da poco pubblicato “Accrescere il valore aggiunto europeo in un'epoca di sfide globali - Mappatura del costo della non Europa (2022-2032)”?

Attraverso un’analisi approfondita delle policy europee, lo studio mira a identificare l'impatto dell'azione congiunta dell'UE in diversi ambiti interconnessi fra loro (economico, sociale, ambientale e sui diritti fondamentali), nonché a quantificare i potenziali incrementi di efficienza per l'economia europea odierna in cinquanta diversi settori di intervento. Dal momento che tale valutazione, operata da esperti, è legata a proposte legislative oggetto di esame del Parlamento europeo, essa risulta profondamente radicata in una discussione politica concreta.

Questi benefici sono quantificabili in termini economici?

Lo studio illustra come l'economia europea potrebbe registrare benefici pari a circa 2.800 miliardi di euro, qualora le politiche promosse dal Parlamento europeo in una serie di settori specifici dovessero essere adottate dalle istituzioni dell'Unione e poi pienamente attuate nel corso del decennio 2022-2032; tale beneficio, quantificato nella cifra importante che ho citato, si tradurrebbe in un guadagno consistente per gli Stati e per tutti i cittadini europei. Per questo motivo, nel nostro studio, abbiamo rivolto particolare attenzione ad analizzare il “costo della non-Europa” in numerosi ambiti programmatici.

Può precisarci cosa si intende esattamente per “non Europa”, e quando si può parlare di costi ad essa annessi?

Il concetto è stato per la prima volta introdotto all’inizio degli anni Ottanta nella relazione “Verso la ripresa economica europea negli anni ‘80”, di Michel Albert e James Ball, per indicare come l'assenza di un autentico mercato comune, insieme ad altri ostacoli agli scambi intracomunitari, costituisse sistematicamente uno svantaggio per l’economia europea: la quale registrava, infatti, risultati assai inferiori rispetto al proprio potenziale, con un costo nell’ordine del 2 % del PIL. L’idea che esista un “costo della non-Europa” può però avere applicazioni di ben più ampia portata rispetto al solo mercato unico: viene, per esempio, utilizzato per spiegare come l’assenza di un’azione comune a livello europeo possa causare, in un settore specifico, una perdita di efficienza per l'economia nel suo insieme; oppure, come beni pubblici di utilità collettiva, che potrebbero esistere, non siano viceversa disponibili. Come si evince, tale idea è strettamente legata a quella di “valore aggiunto europeo”: quest’ultimo cerca di identificare i vantaggi economici dell'intraprendere mentre il primo misura, al contrario, il costo economico del non intraprendere.

2.800 miliardi di euro, ovvero la quantificazione economica dei vantaggi che emerge dal vostro studio cui accennava prima, è una cifra considerevole. È davvero possibile raggiungere questo risultato? Come avete fatto a definirla?

2.800 miliardi di euro sono, in effetti, una cifra decisamente notevole; per intenderci, essa rappresenta circa il 16% del PIL attuale dell'UE. Occorre, inoltre, considerare che, nella valutazione di questi potenziali vantaggi, le nostre stime tendono a eccedere in prudenza. Ed è proprio questo il punto: non solo si può fare molto, ma lo si può fare soprattutto nell'ambito attuale dei Trattati.

L’analisi prende in considerazione lo stato della legislazione UE, le sue potenzialità nascoste e i suoi diversi impatti. Abbiamo applicato modelli analitici, regressioni, analisi costi-benefici, oltre a valutazioni di impatto create su misura per l'area specifica analizzata. Non si ha la pretesa di formulare previsioni esatte sulla base di un unico modello economico, ma il tentativo è quello piuttosto di illustrare il potenziale ordine di grandezza dei possibili incrementi di efficienza realizzabili.

L’idea di un trasferimento di competenze potrebbe trovare però resistenza da parte degli Stati Membri. In che modo l’Unione europea potrebbe risultare persuasiva nei loro confronti, trovando il necessario consenso?

È vero, alcune resistenze si produrrebbero: ma occorre considerare che l'Unione europea non è costruita in modo tale che il trasferimento di competenze dal livello nazionale a quello dell'UE comporti una riduzione dei benefici per i suoi Stati membri. Le condizioni in cui l'Unione ha una priorità di azione rispetto agli Stati membri sono definite dai principi di sussidiarietà e proporzionalità; il nostro studio identifica proprio quelle azioni in cui un trasferimento di competenze verso l'UE produrrebbe maggiori benefici rispetto all’azione dei singoli Stati membri. Ciò non significa che l’integrazione sia sempre, di per sé, la strada più efficace da perseguire. Tuttavia, è innegabile che vi siano molti settori in cui, coordinando politiche comuni tuttora assenti, si possano generare potenziali entrate aggiuntive, capacità di bilancio addizionali o ulteriori guadagni in termini di benessere. Laddove gli obiettivi (e i problemi) sono comuni tra gli Stati, un’azione congiunta permette di sfruttare economie di scala, effetti spillover e altri drivers per la crescita.

Quali sono gli scenari evidenziati dal vostro studio che l’UE e gli Stati Membri potrebbero trovarsi ad affrontare da qui ai prossimi dieci anni?

Nella nostra analisi abbiamo immaginato tre scenari differenti:

  • Lo “status quo” sarebbe il semplice proseguimento, fino al 2032, delle azioni politiche già avviate, senza ulteriori azioni dell'UE: tale scenario ci mostrerebbe, nel periodo citato, un tasso medio annuo di crescita del PIL reale dell’1,3 %.
  • Abbiamo quindi immaginato uno scenario di “frammentazione”: qui, l’azione dell’UE verrebbe depotenziata da posizioni divergenti tra gli Stati membri, con conseguente crisi economica e un tasso medio di crescita del Pil del 0,6%.
  • Infine, nel terzo scenario, il percorso di “azione strategica e collettiva” indicato dal presente studio avvierebbe nuove azioni politiche in linea con gli obiettivi SDGs dell’ONU, promuovendo la capacità di anticipazione e di risposta dell'UE e producendo i risultati che commentavo in precedenza.

Riprendendo alcuni esempi virtuosi presenti nel vostro studio, inseriti dunque nel terzo scenario appena menzionato, emerge con forza la questione legata al Green Deal e alla transizione ecologica.

L’Unione europea si è fissata l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. I nostri studi hanno evidenziato come un’azione a livello europeo in campo energetico potrebbe portare benefici fino a 294 miliardi di euro all’anno entro il 2030 e raggiungere 734 miliardi di euro all’anno entro il 2050, attraverso ad esempio un graduale abbandono dei combustibili fossili, una politica di bilancio lungimirante che permetta un miglioramento dell’efficienza energetica e una semplificazione degli investimenti nelle energie rinnovabili.

Proprio la questione energetica, con la crisi dell’ultimo anno, si collega tra l’altro a un ulteriore tema, cruciale per tutti: con il prolungarsi della guerra in Ucraina, l'Unione europea si trova infatti ad affrontare una delle più gravi sfide in materia di sicurezza degli ultimi decenni. Cosa rivela, il vostro studio, rispetto a questa questione?

Per rispondere a tali sfide e ai rischi geopolitici ad esse associate, si stanno compiendo sforzi importanti per rafforzare le istituzioni comuni dell'UE, con approcci significativi rivolti anche al settore della difesa.

Se sommiamo la spesa militare operata dai singoli Stati Membri, essa risulta essere circa pari a quella cinese, ovvero il secondo più grande spender dietro gli Stati Uniti; tuttavia, la spesa dell’UE per la difesa non è ben coordinata e di conseguenza non ne esce efficiente. La difesa comune dell’UE potrebbe portare a guadagni di efficienza in termini di minori duplicazioni, di risparmi nei costi amministrativi e di maggiori economie di scala. Allo stesso tempo, si potrebbero generare nuove sinergie specialmente in termini di interoperabilità e di ricerca. Complessivamente, si potrebbero generare guadagni compresi tra i 24 e i 75 miliardi di euro all'anno, a seconda dell'ambizione dell’azione dell’UE. La Conferenza sulla sicurezza di Monaco, ovvero il principale forum mondiale per la discussione sulla politica di sicurezza internazionale, ritiene addirittura che con un sistema di appalti congiunti a livello dell’UE si potrebbe risparmiare fino al 30 per cento della spesa annuale destinata alla difesa.

Cambiamo settore. Abbiamo visto negli ultimi anni il ruolo fondamentale che le Istituzioni europee hanno avuto nel combattere la pandemia generata dal COVID-19. Nonostante l’Unione europea abbia oggi soltanto un ruolo di supporto alle politiche sanitarie degli Stati, potrebbe essa ritagliarsi un ruolo di maggiore rilevanza in materia di salute pubblica?

Negli ultimi tre anni, l'UE ha svolto un ruolo chiave nel coordinamento delle misure sanitarie transfrontaliere, nel sostenere il rapido sviluppo di vaccini COVID-19 sicuri e l’acquisto congiunto di attrezzature mediche a prezzi accessibili per tutti gli europei. Secondo quanto indicato dal nostro studio, è proprio nei settori della prevenzione e dell'approvvigionamento sanitario che possiamo trarre il massimo vantaggio, spostando la spesa dal livello nazionale a quello comunitario, con benefici addizionali di oltre 20 miliardi di euro. Se ampliassimo il campo di applicazione oltre ai vaccini per includere tutti i prodotti farmaceutici, gli appalti congiunti potrebbero generare altri 14 miliardi di euro all'anno, consentendo ai Paesi dell'UE di acquistare farmaci a prezzi più bassi e garantirne un accesso più equo a tutte le fasce della popolazione.

In quale settore avete quantificato i maggiori vantaggi economici, derivanti da un’adozione delle politiche promosse dal Parlamento europeo?

Il mercato unico, ogni giorno, permette a milioni di imprese e di consumatori di studiare, vivere, fare acquisti, lavorare e andare in pensione in qualsiasi paese dell'UE, oltre che di disporre di prodotti e di servizi provenienti da tutta Europa. È stato dimostrato che questo processo di integrazione ha favorito un'espansione del PIL dell'UE compresa tra il 6 e l'8 %, che altrimenti non sarebbe stata mai realizzata.

Nonostante questo, il mercato unico continua ad avere bisogno di una migliore implementazione che lo renda più efficiente, in quanto l'eccessiva complessità, i requisiti nazionali superflui, le norme armonizzate in materia di etichettatura e gli altri oneri amministrativi continuano a ostacolare scambi, investimenti e libera circolazione. L’analisi del Parlamento europeo ha quantificato in 644 miliardi di euro annui i benefici che deriverebbero sia da un’azione più incisiva nel garantire la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone, sia dall’introduzione di una tassazione più equa e semplice: armonizzare a livello EU le agevolazioni fiscali e introdurre l’obbligo di fatturazione elettronica per tutti i Paesi membri genererebbe, per esempio, 94 miliardi di Pil europeo aggiuntivo.

Un’ultima considerazione la dedicherei alla nostra Regione, immersa nelle Alpi e transfrontaliera. Vivere ai confini fra Paesi crea certamente ricchezza culturale, nondimeno espone gli abitanti a un perenne confronto fra divergenze di modelli e difficoltà. Esiste qualche stima economica dei vantaggi, per queste regioni, che potrebbero innescarsi con una maggiore integrazione europea?

Centocinquanta milioni di cittadini Ue vivono in regioni transfrontaliere. Questa condizione genera, purtroppo, ancora ostacoli per fare impresa, per acceder ai servizi pubblici, come ospedali ed asili nido, o per promuovere progetti di sviluppo dei loro territori. Differenze legislative tra due Stati di frontiera, blocchi burocratici o semplice mancanza di adeguata informazione, generano non pochi ritardi e rilevanti perdite economiche per i territori di frontiera. Secondo nostri studi, la rimozione anche solo di un quinto degli ostacoli transfrontalieri esistenti, porterebbe ad un vantaggio di 123 miliardi di euro e alla creazione di un milione di posti di lavoro nelle regioni Ue in queste condizioni.