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La Valle d'Aosta e l'Europa

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Una Presidenza all’insegna delle emergenze: bilancio di un biennio tra i più delicati della storia europea

L’Ufficio di Rappresentanza a Bruxelles intervista  Apostolos Tzitzikostas, Presidente uscente del Comitato europeo delle Regioni

Presidente del Comitato europeo delle Regioni Apostolos Tzitzikostas
Presidente del Comitato europeo delle Regioni Apostolos Tzitzikostas

Apostolos Tzitzikostas, Presidente del Comitato europeo delle Regioni dal febbraio del 2019 al giugno del 2022, ha studiato Pubblica amministrazione e Relazioni internazionali alla Georgetown University di Washington (USA). Dopo essersi laureato nel 2000, ha fatto le prime esperienze lavorative presso l'ufficio del Presidente della commissione Affari esteri del Congresso degli Stati Uniti. Nel 2002 ha conseguito un master in Politica ed Economia pubblica europea presso lo University College di Londra. Eletto nel 2007 al Parlamento greco per il partito Nea Demokratia (PPE), nelle elezioni regionali del maggio 2014 è stato eletto Presidente della Regione della Macedonia centrale, carica confermata a seguito della successiva tornata elettorale del 2019. Membro del Comitato europeo delle Regioni dal 2015, parla correntemente inglese e francese e pubblica frequentemente articoli su riviste e giornali greci e stranieri.

  • Presidente, durante il suo mandato le comunità locali europee hanno dovuto affrontare le conseguenze di due crisi certamente epocali: la pandemia e la guerra in Ucraina. Entrambi questi contesti hanno colpito le nostre regioni in modo profondo, mettendo in luce significative differenze di approccio e di reazione da parte delle varie realtà territoriali. Rispetto a due anni e mezzo fa, ovvero quando fu eletto alla presidenza del Comitato delle Regioni, quella di oggi si presenta come un'Europa più frammentata e diseguale? 

La pandemia ha avuto un impatto differenziato sui nostri territori, aggravando divari preesistenti – come nel caso della connettività digitale delle aree rurali e montane – e aprendo nuove fratture. Alcuni settori economici sono stati colpiti in modo più duro – penso al turismo – mentre altri hanno trovato nuove opportunità, come nel caso del commercio elettronico. Anche la guerra in Ucraina ha ovviamente un impatto territoriale differenziato, che varia a seconda delle vocazioni industriali, del mix energetico, della posizione geografica. Queste due crisi, però, hanno provocato una reazione che ha migliorato la capacità dell’Unione di reagire in modo solidale su sanità, politica economica espansiva e flussi di rifugiati, aree che in passato, per ragioni di competenze o di divergenze politiche, hanno visto i Paesi europei ben più divisi. Da questo punto di vista siamo più uniti oggi, anche se facciamo i conti con crisi epocali e divari in aumento.

  • In una fase storico politica così segnata dall'urgenza e dalle emergenze, in cui gli spazi di discussione e di democrazia hanno dovuto ridursi considerevolmente per consentire una efficace rapidità delle decisioni, quale è stato e quale può ancora essere il ruolo di un organismo consultivo come il Comitato delle Regioni nel dibattito politico europeo? È stato possibile far sentire la voce delle comunità locali a Bruxelles?

In questa fase drammatica il Comitato ha visto il suo peso aumentare grazie al lavoro vitale e straordinario portato avanti dai suoi membri – e da tutti i leader locali e regionali europei - nelle loro comunità. Sindaci, governatori, amministratori locali hanno avuto un ruolo decisivo nel proteggere i cittadini durante la pandemia, nell’aiutare le imprese a sopravvivere, nel rilanciare i territori e, successivamente, nell’organizzare la solidarietà e l’accoglienza dei profughi, e nell’aiutare famiglie e imprese ad affrontare le difficoltà di questa nuova crisi. Si spiegano così l’attenzione accresciuta al lavoro del CdR, la presenza alle nostre plenarie di primi ministri (Merkel, Costa, Macron, etc.) e leader europei al massimo livello, il successo del Summit di Marsiglia dello scorso marzo, e il rafforzamento dei rapporti istituzionali, come nel caso dei piani d’azione siglati con le Commissarie Gabriel e Ferreira.

  • La sua presidenza ha insistito sulla necessità, per l'Unione europea e per i governi nazionali, di concentrarsi particolarmente sulla ripresa delle aree rurali e montane. Qual è il vostro bilancio di fine mandato su questo fronte, e quali risultati sono stati raggiunti? Crede che una regione montana al 100% come la Valle d'Aosta possa aspirare, nei prossimi mesi e anni, a far pesare di più le esigenze dei propri cittadini nel dibattito europeo e nazionale?

Durante la pandemia ci siamo resi conto che i divari che da sempre penalizzano le aree rurali e montane stavano avendo un prezzo elevatissimo. Studenti che non potevano frequentare i corsi on line, aziende escluse dalle opportunità dell’e-business, pazienti, magari anziani, costretti a fare troppi km per avere assistenza e cure. La priorità è stata quindi quella di dare visibilità a questi divari con il nostro Barometro locale e regionale, e chiedere insistentemente di coordinare tutti gli strumenti disponibili per il rilancio di queste aree – fondi strutturali, fondi per la ripresa, politiche agricole. Questa battaglia entra ora nel vivo perché proprio in questi mesi, la conclusione dei programmi 2014-2020, il lancio dei programmi 2021-2027, l’adozione del piano strategico nazionale per la PAC e l’implementazione dei PNRR devono portare opportunità concrete per le zone rurali e montane, con interventi ben coordinati e coerenti. E le regioni montane devono unire le forze per monitorare in modo unitario l’impatto effettivo di tutti questi strumenti in modo da chiedere modifiche e aggiustamenti qualora necessario, anche a livello europeo. Il Comitato delle regioni in questo senso offre una piattaforma utile a coordinarsi con le altre regioni montane europee e a elaborare e portare avanti proposte per sostenere sempre meglio queste aree strategiche.

  • I Fondi strutturali europei hanno sempre avuto un ruolo molto importante per i nostri territori, pur faticando a imporsi, tra le Istituzioni europee e in molti governi nazionali, come una priorità. Ora, a concentrare energie e progettualità, si sono aggiunti anche i fondi liberati dal Recovery Plan. Come ritiene si possa evitare che, nei prossimi anni, le politiche di coesione vengano marginalizzate e svuotate della loro funzione?

Le politiche di coesione sono state e sono decisive per la reazione dell’UE alle crisi di questi anni. La contrapposizione tradizionale tra esigenze immediate e obiettivi di lungo periodo ha perso il significato di un tempo: attrezzare meglio i nostri ospedali e potenziare i servizi è stata una necessità drammatica in questi anni ma è anche un investimento sulla nostra capacità di affrontare minacce future. Diminuire la nostra dipendenza energetica verso Paesi terzi e potenziare il ricorso alle fonti rinnovabili è una priorità assoluta in questo momento ma anche un investimento vitale per il nostro futuro. In questo lavoro i fondi strutturali ci offrono un modello di intervento unico, in cui le priorità vengono concordate con gli attori locali sulla base delle esigenze reali dei territori. È l’unica politica europea in cui per decidere dove investire su mettono intorno a un tavolo UE, governo nazionale, di regioni, città, università, imprese, sindacati, società civile. Questa unicità va preservata. Il futuro delle politiche di sviluppo europee non può essere la centralizzazione. In questo senso i recovery plan scontano una governance dall’alto dovuta all’urgenza ma che non può rappresentare un modello. Lo vediamo ora che siamo nella fase dell’implementazione: in diversi Paesi, regioni e città stanno diventando decisive dopo essere state escluse dalla definizione dei piani. È fondamentale che siano sostenute e che possano contare sulla capacità amministrativa necessaria a questa sfida ma andavano coinvolte prima. Va però riconosciuto che con i piani di rilancio si stanno anche testando soluzioni innovative di cui potranno beneficiare anche i fondi strutturali in futuro. In materia di appalti, ad esempio, di rendicontazione, di orientamento ai risultati. Se il tentativo di sburocratizzare gli investimenti europei per la ripresa avrà successo, sarà una lezione per tutte le altre politiche comuni.

  • Come valuta, Presidente, la Conferenza sul Futuro dell'Europa, e come lo vede questo futuro, dal punto di vista di regioni, città e piccoli comuni? Le emergenze, secondo lei, causeranno o forzeranno una maggiore centralizzazione, oppure ci sarà ancora spazio per un'Europa dal basso?

A maggio, si è concluso il primo capitolo di questo percorso, che è stato capace di fornire indicazioni importanti su come l’Europa può e deve cambiare per avvicinarsi alle persone e alle loro aspettative. Molte delle proposte emerse insistono sul bisogno di radicare sul territorio le decisioni europee. I cittadini chiedono anche di dare al Comitato europeo delle regioni un ruolo più incisivo nel processo legislativo europeo. Si tratta di un primo passo importantissimo ma ora è fondamentale la capacità di dare un seguito a questa fase di elaborazione. Alcuni dei cambiamenti proposti non richiedono una modifica dei trattati, altri sì. In entrambi i casi, se i Paesi membri e le istituzioni europee sapranno aprirsi a cambiamenti di buon senso – come l’abbandono dell’unanimità tra Stati membri come pre-condizione per decisioni fondamentali – la Conferenza sarà servita e i tanti cittadini che hanno deciso di partecipare vedranno la loro fiducia ricompensata. Se invece tutto finirà con qualche dibattito e nulla di concreto, non solo avremo perso un’occasione preziosissima di rendere più forte la nostra Unione, ma dovremo fare i conti nuove ondate di euroscetticismo e di populismo. Il Comitato, dal primo momento, si è mobilitato per coinvolgere il più vasto numero di cittadini e di comunità locali e ora continua il suo lavoro per fare in modo che le comunità locali e regionali rappresentino le fondamenta della casa della democrazia europea.